IL CORPO REPLICATO: ESTETICA, DESIDERIO E DOMINIO

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Nel mio percorso ho osservato come la percezione del corpo artificiale cambi in relazione al desiderio di controllo. Che si tratti di un androide, un avatar o di un volto ritoccato in clinica, le scelte estetiche non sono mai neutre: rivelano tensioni, aspirazioni, paure.

Il corpo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Viviamo in un’epoca priva di certezze. Le crisi ambientali, politiche ed economiche hanno reso l’imprevisto una condizione cronica. In risposta, cerchiamo di standardizzare, prevedere, semplificare. Anche i corpi, oggi, devono diventare leggibili, dominabili. È qui che la tecnologia incontra il desiderio: nell’illusione di poter addomesticare la complessità attraverso la forma.

Nel post Deformità Sintetica // Fragilità Umana ho introdotto il concetto di uncanny valley, che può aiutarci a decodificare anche alcune scelte estetiche inconsce.

Uncanny Valley

Nel 1970 l’ingegnere giapponese Masahiro Mori descrisse per la prima volta il fenomeno della uncanny valley (“valle perturbante”): più un robot somiglia a un essere umano, più ci attrae — fino a un certo punto. Quando la somiglianza si avvicina alla perfezione ma resta imperfetta, si genera repulsione. L’empatia si trasforma in disagio.

L’effetto del movimento

È il movimento a intensificare la reazione. Un androide immobile può apparire affascinante; ma se si muove con leggere incoerenze — troppo lento, troppo rigido — il cervello lo percepisce come disturbante. È una dissonanza cognitiva: il corpo quasi umano si comporta quasi bene, ma mai del tutto.

Il conflitto motorio

Le neuroscienze hanno confermato che le nostre aree motorie, tramite i neuroni specchio, anticipano i gesti altrui. Se un corpo umanoide infrange queste aspettative, scatta l’allerta. La corteccia visiva segnala l’anomalia, l’amigdala risponde con inquietudine. È un riflesso primordiale di protezione.

Una strategia evolutiva

L’inquietudine davanti a un essere quasi umano è un meccanismo adattivo. Nell’evoluzione, riconoscere corpi alterati significava evitare malattie o pericoli. L’imperfetto genera sospetto, e il sospetto preserva.

Robot-feticismo e Pigmalionismo

Accanto alla repulsione esiste anche una fascinazione per l’artificiale: erotica, emotiva, estetica.

  • Il Pigmalionismo, dal mito di Pigmalione e Galatea, racconta l’innamoramento per ciò che si è creato e idealizzato.
  • Il robot-feticismo (o technosexuality) descrive l’attrazione verso androidi, AI o sex-doll.

Queste dinamiche rispondono a un bisogno di controllo. Un partner artificiale non giudica, non abbandona, non ha esigenze. È proiezione di un amore senza attrito, ma anche riflesso di un desiderio di dominio travestito da tenerezza.

La cultura pop ne ha raccontato i limiti: Her (2013) mette in scena un legame affettivo con un assistente vocale; Ex Machina (2015) esplora l’ambiguità tra seduzione e manipolazione. In entrambi i casi, l’artificiale rivela le nostre insicurezze.

Chirurgia estetica: tra perfezione e insicurezza

La chirurgia estetica è oggi una forma di programmazione del corpo. Non più solo correzione, ma linguaggio sociale: un modo per riscrivere il proprio aspetto secondo standard imposti da media e algoritmi.

Dietro il bisturi, spesso si nasconde la dismorfofobia: una percezione distorta di sé che porta a eliminare difetti invisibili. Il corpo diventa una superficie su cui incidere ansie, fino a produrre una “bellezza sintetica” che annulla ogni singolarità.

Modificarsi può sembrare un atto di libertà, ma spesso è obbedienza. Si aderisce a un modello seriale, sempre più vicino a quello dei corpi artificiali: simmetrici, levigati, standardizzati.

Body modification estrema: identità, rituale, resistenza?

Accanto alla chirurgia estetica mainstream esiste un universo più radicale: quello della body modification estrema. Impianti sottocutanei, split tongue, scarificazioni, sospensioni corporee: pratiche che vanno oltre il miglioramento estetico per toccare il territorio del simbolico, del rituale, del politico.

A differenza della chirurgia omologante, queste modifiche sono spesso gesti di rottura. Un rifiuto del corpo normato, una presa di distanza dai modelli imposti. In alcuni casi, diventano forme di resistenza identitaria: segnali di appartenenza a subculture, atti di autodeterminazione estrema, affermazioni di potere sul proprio corpo contro ogni norma esterna.

L’artista Orlan, ad esempio, ha trasformato la chirurgia plastica in performance, decostruendo gli ideali femminili imposti dall’arte classica e dalla cultura mediatica. La sociologa Victoria Pitts, nei suoi studi sulle culture del corpo modificato, interpreta queste pratiche come strategie di significazione e agency in un mondo che esige conformità.

Ma anche qui si può celare un desiderio di controllo: quello interiore, sulla soglia tra dolore e trasformazione. La body modification radicale, pur sovversiva, condivide con la chirurgia estetica la tensione verso un corpo riscritto. La differenza sta nel fine: non sempre il bello, ma il vero — o almeno, il proprio.

Bodybuilding: la scultura del controllo muscolare

Il bodybuilding estremo rappresenta una delle manifestazioni più evidenti del controllo totale sul corpo biologico. La storia di Petar Duper del Podcasterone è emblematica: dopo aver praticato sport fin da bambino, all’età di 21 anni si lacera la retina, evento che frantuma il suo progetto sportivo. La transizione verso il bodybuilding non è casuale: è la risposta di un corpo che ha subito l’imprevisto e ora cerca di riappropriarsi del controllo attraverso la disciplina più rigida possibile. Ogni muscolo diventa territorio riconquistato, ogni definizione una vittoria sull’incertezza. Il corpo diventa macchina programmabile dove ogni grammo di cibo e ogni minuto di allenamento sono variabili di un’equazione che deve produrre risultati prevedibili. Ma anche qui emerge il paradosso: più si cerca di plasmare il corpo, più si rivela la sua resistenza. I muscoli diventano protesi identitarie, performance esagerata di virilità che tradisce, proprio nell’eccesso, la fragilità che cerca di nascondere.

Corpi virtuali: identità oltre la carne

Il documentario La vita straordinaria di Ibelin racconta la storia reale di Mats Steen, un ragazzo norvegese affetto da una grave malattia degenerativa, che ha vissuto gran parte della sua esistenza all’interno di World of Warcraft, dove era conosciuto come Ibelin. Nel mondo fisico il suo corpo era immobilizzato; in quello virtuale, era libero, rispettato, amato.

La vicenda di Ibelin mostra con chiarezza quanto il corpo digitale non sia un’astrazione, ma una forma di esistenza concreta. L’avatar diventa protesi identitaria, spazio di relazione, estensione sensibile dell’io. Non un rifugio, ma un corpo alternativo — costruito, modificabile, eppure autentico.

Anche nei mondi virtuali, il corpo è linguaggio. La scelta dell’aspetto, del movimento, della voce sintetica, diventa dichiarazione di sé. La realtà aumentata, il gaming e il metaverso non annullano il corpo: lo moltiplicano, ne estendono le possibilità, ma anche le insicurezze. Se il corpo fisico è plasmato da bisturi e filtri, quello virtuale è scolpito da sogni, bisogni, algoritmi.

Influencer sintetiche: il corpo senz’anima che vende

Negli ultimi anni sono emerse influencer generate dall’intelligenza artificiale: belle, giovani, disponibili, instancabili. Non invecchiano, non sbagliano, non chiedono compensi. Esistono solo per piacere e promuovere, ottimizzate per generare engagement e profitto.

Questo fenomeno rappresenta l’estensione estrema della logica del controllo: bypassare la persona, eliminare l’imprevedibile, produrre un corpo-docile perfettamente aderente alle logiche di mercato. Il corpo, in questo caso, non è più nemmeno simulacro di un’identità: è solo interfaccia, prodotto ottimizzato.

L’influencer sintetica è l’erede diretta della Galatea contemporanea: costruita per piacere, modellata sugli algoritmi del desiderio, ma svuotata di qualunque soggettività. Non è più il corpo a essere controllato: è la sua stessa esistenza a essere progettata per vendere.

Conclusione

Siamo nell’epoca in cui il confine tra naturale e artificiale si fa labile. Ed è proprio lì, in quella zona grigia, che si manifesta un paradosso: più desideriamo il controllo, più temiamo l’imprevisto; più inseguiamo la perfezione, più ci allontaniamo dall’autenticità.

Il corpo sintetico — che sia un androide, un avatar o un volto rifatto — è il prodotto di questo paradosso. Il problema non è la tecnologia, ma il nostro bisogno di dominio. E il vero rischio non è diventare robot, ma smettere di accettare l’imperfezione come parte essenziale dell’umano.

Bibliografia

  • Mori, M. (1970). The Uncanny Valley. Energy, 7(4), 33–35.
  • Freud, S. (1919). Il perturbante.
  • Haraway, D. (1985). A Cyborg Manifesto.
  • Turkle, S. (2011). Alone Together.
  • Baudrillard, J. (1981). Simulacri e simulazione.
  • Pitts, V. (2003). In the Flesh: The Cultural Politics of Body Modification. Palgrave Macmillan.
  • Orlan (2007). This is my Body… This is my Software. Routledge.
  • Braidotti, R. (2013). Il postumano. DeriveApprodi. (per il corpo come interfaccia e soglia identitaria)
  • Cresci, E. (2023). Virtual influencers are changing marketing forever. The Guardian