USARE E CRITICARE: IL PARADOSSO APPARENTE DELL’ETÀ TECNICA

, , ,

Questo post è una premessa importante per comprendere il mio metodo critico. C’è una fastidiosa tendenza, oggi, a squalificare ogni forma di dissenso verso la tecnocrazia con la logica spiccia del “e però lo dici da un iPhone”.

Come se il fatto di usare un mezzo impedisse di criticarne le logiche, come se la lucidità potesse solo esistere fuori dal sistema. Ma chi ragiona così confonde la coerenza con la rinuncia, e la critica con l’ascetismo.


Tecnologia come ambiente, non come scelta

Viviamo immersi in una rete di strumenti, piattaforme, automatismi e infrastrutture digitali che, spesso, definiamo ancora con la parola tecnologia. Ma la tecnologia non è più un insieme di mezzi esterni: è ambiente, linguaggio, condizione antropologica. Non si tratta più di scegliere se usarla o meno, ma di comprendere come essa media il nostro modo di pensare, percepire, relazionarci.

In questo contesto, può sembrare contraddittorio che chi riflette criticamente sul digitale, sull’intelligenza artificiale, sui social network o sulle infrastrutture culturali automatizzate usi proprio questi strumenti per esprimersi. Eppure, è proprio questo il punto cieco della nostra epoca: la convinzione che la coerenza coincida con la diserzione.

Non si esce dal campo

Chi cerca una posizione “pura”, esterna al sistema tecnico, compie un’operazione tanto ingenua quanto pericolosa: immagina di poter osservare il mondo senza essere nel mondo.

L’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico.Martin Heidegger

La tecnica è un modo di rivelare il reale, di strutturare la nostra esperienza del mondo — e per questo non la si può semplicemente evitare, come fosse un oggetto tra gli altri.

Per questo, la critica non può che accadere dall’interno.

Non si tratta di scagliarsi contro lo strumento, ma di osservarne le logiche, smontarne i presupposti, interrogare il modo in cui ci plasma. E se si sceglie di usare certi mezzi — una piattaforma, un algoritmo, un’interfaccia — lo si può fare non per accettarne le regole, ma per metterle in tensione.

L’uso riflessivo non è complicità

Non tutto l’uso è omologazione. Esiste un uso strabico, critico, interstiziale, che mira a generare fratture, deviazioni, interrogazioni. È lo stesso tipo di uso che l’arte ha sempre fatto degli strumenti del potere: piegare il linguaggio dominante per rivelarne le falle.

Le tecnologie del sé permettono agli individui di operare su sé stessi per trasformarsi – Michel Foucault.

Questa trasformazione non è sterile autoreferenzialità, ma un modo per abitare la soglia tra interiorità e sistema, tra coscienza e infrastruttura. Allo stesso modo, oggi, chi parla di intelligenza artificiale può farlo usando proprio un sistema AI, senza per questo perdere lucidità. Anzi:

È solo facendo un uso tattico dei media dominanti che possiamo sperare di sabotarne le logiche – Geert Lovink.

La critica è presenza, non fuga

La vera incoerenza non è nell’usare ciò che si osserva criticamente, ma nel pensare che la coerenza consista nel silenzio o nel rifiuto dell’interazione.

Criticare dall’interno significa abitare il paradosso con lucidità, assumersi la responsabilità di agire pur sapendo che ogni azione è mediata, ogni gesto compromesso.

Come scriveva Günther Anders:

Siamo più capaci di produrre che di immaginare ciò che produciamo.

Essere critici significa quindi anche recuperare immaginazione etica, non sottrarsi.

It’s never the machine, but the one behind /
We shape the future with our own mind /
Algorithms bend to the human touch /
The fault is ours, the machine is just a crutch.

Una nota sulle scelte individuali

Alcune mie decisioni — come abbandonare Google a favore di motori di ricerca alternativi come DuckDuckGo, o uscire dai social network per evitare forme di interazione non compatibili con il mio stile di vita — non derivano da un rifiuto della tecnica, ma da una riprogettazione dei miei ambienti cognitivi ed emotivi.

Non si tratta di sottrazione ma di progettazione selettiva: ridurre l’esposizione a sistemi che favoriscono la polarizzazione, la distrazione, la performance costante, non è una forma di isolamento, ma una scelta di cura del pensiero.

Una forma di igiene mentale che permette di mantenere una distanza critica e di non cedere all’assimilazione passiva. Rifiutare certe logiche non è nostalgia: è il tentativo di restare umani dentro la tecnica, non malgrado essa.


Arte e spirito critico


E vale lo stesso per l’arte. Quando rinuncia a stimolare lo spirito critico o a prendere posizione, si riduce a esercizio di stile.

Può essere tecnicamente impeccabile, persino emozionante, ma resta chiusa in sé stessa: decorazione senza attrito, estetica disinnescata.

Lo diceva già Theodor W. Adorno:

L’arte è la forma che il pensiero assume quando diventa sensibile.

Ma se quel pensiero si svuota, l’arte si fa pura superficie, consolazione audio-visiva che conferma l’ordine esistente.

Nel suo Society of the Spectacle, Guy Debord denunciava la trasformazione dell’opera in merce, in esperienza passiva e ripetibile. Un’arte che non disturba, che non rischia è complice del sistema che la tollera.

Arthur Danto, in chiave diversa, osservava che dopo il tramonto dell’estetica come criterio dominante, l’arte è ciò che chiede di essere interpretato. Se non c’è interrogazione, se tutto è già detto o tutto è solo forma, non c’è più arte, ma arredamento concettuale.

Prendere posizione non significa predicare, ma scegliere da che parte guardare — e mostrare ciò che spesso viene oscurato.

Bibliografia

È l’opera più densa e rappresentativa sul rapporto tra arte, pensiero e critica sociale. Contiene l’idea centrale che l’arte autentica deve mantenere una tensione con la realtà, non risolversi in forma compiaciuta o decorativa.
Theodor W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi

  • Martin Heidegger, La questione della tecnica, Mursia
  • Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli
  • Geert Lovink, L’arte della critica radicale dei social media, Verso