DEFORMITÀ SINTETICA // FRAGILITÀ UMANA

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l’abominio artificiale: L’urgenza del presente

Negli ultimi tempi sono in corsa contro il tempo. Con l’arrivo di modelli di generazione video sempre più realistici, come Veo 3, sento il bisogno di produrre il maggior numero di contenuti adesso, in questa breve finestra di sperimentazione. Perché questa estetica, fatta di errori, corpi deformi, movimenti sbagliati, rappresenta per me la forma più immediata, cruda e sincera di espressione del dolore dei nostri tempi.

Una genealogia del dolore visivo

La deformità come rappresentazione della sofferenza umana ha radici profonde nella nostra cultura visiva. Fin dalle rappresentazioni medievali, i diavoli e i mostri delle cattedrali gotiche non erano solo ammonimenti religiosi, ma anche immagini capaci di raccontare il dolore collettivo e le paure più profonde.

Con l’espressionismo novecentesco, questa tradizione trova una nuova consapevolezza: Schiele, Munch, Kokoschka distorcono deliberatamente il corpo per dare voce all’angoscia e alla disperazione. La figura allungata, tormentata, fragile, diventa la traduzione visiva di una ferita interiore che altrimenti rimarrebbe inesprimibile.

Il surrealismo spinge ancora oltre, trasformando la deformità in immagini oniriche e perturbanti. Corpi metamorfici, arti disarticolati, anatomie impossibili: l’inconscio che rielabora il trauma, il dolore, la paura in forme visionarie che sfuggono alla logica, ma parlano direttamente alle nostre profondità.

Nel cinema, da Freaks di Browning a The Elephant Man di Lynch fino al body horror di Cronenberg, la deformità racconta sempre la sofferenza. Mostrare un corpo che sfugge alla norma significa mostrare una ferita, un’esclusione, un dolore fisico e simbolico che la società preferisce nascondere.

In tempi recenti, la glitch art riprende questo ruolo ancestrale: l’errore tecnologico, la distorsione digitale, diventa una ferita visiva contemporanea, capace di rompere la patina perfetta delle immagini digitali e di raccontare un dolore nuovo, quello dell’uomo-macchina, dell’algoritmo che fallisce e rivela la sua fragilità.

Il paradosso della comfort zone

Tutto questo per me è profondamente catartico. L’estetica della deformità è parte di un processo di cura, perché dà forma al dolore e lo rende condivisibile. Mi ci riconosco, ci ritrovo una zona sicura: una comfort zone che passa attraverso la morbosità e lo spiazzamento, ma alla fine mi placa.

Anche la teoria di Mori sull’uncanny valley illumina questo paradosso. Quando vediamo un corpo quasi umano ma imperfetto, proviamo disagio: il cervello non riesce a prevederne i movimenti, e questo manda in tilt i nostri sistemi di anticipazione motoria, creando una sensazione di minaccia. Io però riesco a trovare pace proprio in quello squilibrio, in quella zona di incertezza che molti rifuggono.

Come diceva Luigi Russolo parlando del rumore, ciò che è disturbante ci è in fondo familiare, perché è reale, vivo, autentico. Per me, la deformità è la stessa cosa: un errore genuino che parla della condizione umana più di qualsiasi perfezione artificiale. È nell’imperfezione che riconosco la verità del dolore, e paradossalmente, la possibilità di una sua elaborazione.

L’estetica dell’errore per raccontare le fragilità umane

Ecco perché questa finestra temporale mi sembra così preziosa. Gli errori dell’intelligenza artificiale di oggi sono involontari, spontanei, autentici nella loro inadeguatezza. Domani, quando dovrò chiedere alla macchina di sbagliare apposta, quell’errore sarà già nostalgico, già artefatto. L’imperfezione programmata non avrà più la stessa forza catartica dell’imperfezione genuina.

In questa corsa contro il tempo, sto raccogliendo una testimonianza: quella di un momento irripetibile in cui la macchina, nel tentativo di imitare la realtà, rivela tutta la sua fragilità, diventando specchio involontario della nostra imperfezione.

L’ossessione per la perfezione che genera nuove deformità

Non possiamo ignorare come la nostra epoca, ossessionata dalla bellezza standardizzata, alimenti a sua volta nuove forme di deformità. La chirurgia estetica, spinta da modelli filtrati e ripetuti all’infinito sui social, costruisce corpi sintetici, segnati da un innaturale equilibrio. Labbra ipertrofiche, muscoli protesici, zigomi scolpiti, nasi rifatti fino a cancellare ogni identità: queste modifiche, nate per aderire a un ideale, finiscono spesso per generare una nuova forma di deformità.

Non è un giudizio su chi persegue questa estetica, ma un’osservazione. Perché questi corpi, a loro modo, mi ricordano i classici Mostri della Universal dove ogni creatura rivela la fragilità dell’animo umano, le insicurezze, le paure, le debolezze che tutti, in fondo, condividiamo. Sono sinceramente affascinata da questa estetica di plastica che senza volerlo genera nuovi “difetti” e spoporzioni.

In SOCIAL MACHINE racconto questo, la paura di non essere abbastanza che ci spinge a deformare noi stessi per compiacere gli altri e gli algoritmi — con tutto il rispetto per chiunque cerchi un suo modo per curare le proprie ferite esistenziali.