Le AI ci rubano il lavoro?

La risposta semplice è no, ma sforziamoci di ragionare.

Ieri sera ho assistito a una live su TikTok, uno scrittore esprimeva il suo punto di vista sulla questione AI: un mix di ammirazione, paura, insicurezze e rifiuto che temo possa solo ingabbiare la sua creatività e quella di molti altri.

Come disse un vulcaniano:

Spesso temiamo ciò che non riusciamo a capire.
La miglior difesa è la conoscenza.

Se andaste oltre il marketing e la divulgazione sensazionalistica, sarebbe tutto più semplice. Le AI oggi sono prodotti commerciali, ed è ovvio che vengano vendute amplificandone le potenzialità. Sono strumenti potenti, per carità, ma per loro definizione sono progettate per simulare il pensiero umano. Il loro design è focalizzato sul generare risposte sempre sensate all’apparenza. Capisco che a un primo impatto possano far paura, ma non comprendo quando questo terrore persiste in chi dovrebbe occuparsi di pensare per mestiere.

Qualsiasi strumento utile dovrebbe essere trasparente riguardo ai suoi limiti. L’assenza di messaggi di errore quando si superano certe capacità non è un segno di affidabilità, ma di un design costruito per evitare di mostrare debolezze, il che può essere fuorviante per l’utente.

Nel contesto dell’IA generativa, questa mancanza di trasparenza è problematica: fa sembrare tutto più solido di quanto non sia. Senza un’indicazione chiara di quando l’output potrebbe essere impreciso, ci si affida a uno strumento che maschera l’incertezza invece di affrontarla. Questo non è solo una questione tecnica, ma anche un problema di fiducia e onestà nell’uso della tecnologia.

Chiarito che se un software non ammette quando sbaglia non è affidabile, ma manipolatorio, possiamo concentrarci sul vero nodo della questione: la necessità di un pensiero critico di fronte alla tecnologia, anziché un’accettazione passiva o il rifiuto categorico.

Sono consapevole di trovarmi in una posizione privilegiata. Seguo il dibattito sugli algoritmi al servizio della creatività da più di vent’anni. Sono stata allieva di Carlo Coppola, un pioniere della Progettazione Generativa, a cui devo molto della professionista che sono oggi. I suoi corsi in facoltà erano focalizzati sulla definizione del paradigma di specie: la creazione di una forma generatrice di oggetti unici prodotti in serie.

All’epoca erano gli artigiani a farsi venire le crisi. Ai meno attenti, la sua sperimentazione nel campo del gioiello sembrava voler annientare il valore dell’oggetto prodotto a mano. Il suo corso non solo mi ha aiutato a integrare la tecnologia nel mio lavoro, ma ha anche allenato la mia mente a guardare oltre i limiti del pensiero pigro e superficiale sul concetto di unicità.

Il metodo di progettazione che ci ha insegnato ha dato valore alle nostre idee, alla loro identità, alla riconducibilità autoriale e alla familiarità tra forme figlie dello stesso pensiero.

Oggi posso affermare che, se un creativo teme la tecnologia senza sforzarsi di conoscerla, rifiuta una parte essenziale dell’evoluzione del suo mestiere.

Sia chiaro: puoi scegliere di escluderla dai tuoi processi per infinite ragioni, ma temerla al punto da considerarla una minaccia ti esclude da ogni forma di dibattito consapevole.

Arte, design e artigianato

Capisco che la mia formazione artistica, accoppiata a un approfondimento accademico sul prodotto industriale, possa spiazzare. Spesso mi dedico anche ad attività artigianali. Sono tre settori diversi, che devono dialogare per evolvere; quando si chiudono in sé stessi, perdono il loro prestigio.

I puristi non saranno d’accordo e, in parte, comprendo questo limite.

Torniamo alle AI.

I chatbot che tanto vi terrorizzano non hanno un database, ma sembrano avere tutte le risposte. Non sono in grado di ragionare, ma sembrano elaborare pensieri complessi. La chiave per comprendere la questione è nel verbo sembrare.

Per chi le usa nel proprio settore di competenza, le AI allo stato attuale possono solo deludere o portare alla pigrizia creativa.

Gli enormi investimenti ne hanno accelerato il progresso, e pochi erano preparati a questa democratizzazione. Lo ammetto: io non ero pronta a vederle ridotte a un gioco di prestigio, ma rileggendo La Filosofia degli Automi. Origini dell’Intelligenza Artificiale, ha tutto molto senso. La questione è sempre stata focalizzata sull’imitazione.

Mi ha sempre affascinato come questo dilemma filosofico abbia alimentato l’evoluzione della cibernetica. Il mio pragmatismo mi ha sempre portato a valutarne solo il potere computazionale, al servizio dell’uomo.

Quando ho iniziato a usarle, mi sono scontrata con la quasi totale assenza di parametri di controllo. Le AI non integrate in software professionali sono poco più che giocattoli. Burle e mistificazioni in cui solo chi vuole sentirsi competente in ambiti non suoi può cascare.

Ma riflettete: la fotografia non ha ucciso la pittura, Photoshop non ha distrutto la fotografia, e le AI non distruggeranno né l’arte né l’editoria. Al massimo, come ogni innovazione tecnologica, ci obbligano a evolverci.

Non ho mai negato le problematiche legate al diritto d’autore e la complessità di alcuni temi etici, ma questi toni apocalittici iniziano a non divertirmi più. Io le ho testate per la generazione di testi, i risultati sono imbarazzanti. Con prompt ben strutturati sono utili per individuare pattern, organizzare appunti, ma stiamo calmi.

Il senso di inadeguatezza come spinta creativa

In questo blog documento i miei processi creativi, le insicurezze, le paure di non fare abbastanza. La necessità di distruggere le prime idee, anche quando sembrano funzionare.

Ora che le sto ripercorrendo, realizzo quanto sia essenziale il senso di inadeguatezza per spingerci oltre i limiti dell’autocompiacimento.

Quanto sia importante la paura umana di accontentarsi del primo risultato. E quanto il valore della sensibilità incida sulle nostre scelte.

Il business dell’illusione

In questo calderone di paure e sensazionalismi, gli unici che vincono sono i fuffaguru. Fanno contenuti virali e vendono corsi: io ammiro la loro capacità di intercettare le debolezze umane. Forse sono loro gli unici ad avere la lucidità e la capacità di resistere in questo momento. Vendono soluzioni facili a problemi complessi. Se cercate scorciatoie per vicoli ciechi, state seguendo le persone giuste.

Se in questi anni vi siete formati nel vostro settore, se avete mantenuto sensibilità e capacità analitica, se sapete dare valore all’emotività, non avete nulla da temere. Solo chi si rifugia nei soliti schemi, chi si accontenta di usare cliché e soluzioni banali per incontrare i favori di un mercato saturo di mediocrità deve tremare.

Per tutti quelli che non vogliono mettersi in discussione: continuate pure a battere forte le dita sulla tastiera, comprate un nuovo microfono per urlare il vostro dolore, sfogatevi sui social mentre le occasioni vengono colte da altri.

Se cercavate l’ennesima scusa per sentirvi vittime del sistema non meritocratico, questa è l’occasione perfetta: se non avete successo, è tutta colpa delle AI cattive, progettate per annientarvi.

Non ho aggiunto immagini a questo articolo, chi ha bisogno di ganci visivi per prestare attenzione a un contenuto con molta probabilità merita di stagnare nella sua disperazione.


Bibliografia Essenziale su Tecnologia, Arte e Intelligenza Artificiale

Benjamin, Walter. L’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966.

(Analisi dell’impatto della riproduzione tecnica sulla percezione dell’arte.)

Turing, Alan. Computing Machinery and Intelligence. Mind, vol. 59, n. 236 (1950): 433-460.

(L’articolo che introduce il concetto di test di Turing e l’idea di macchine pensanti.)

Eco, Umberto. Apocalittici e integrati. Milano: Bompiani, 1964.

(Studio sull’impatto dei media di massa e sulla dicotomia tra rifiuto e accettazione della tecnologia.)

Cordeschi, Roberto. La filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati Boringhieri, 1994.

(Esame delle radici storiche e filosofiche dell’intelligenza artificiale.)

Grau, Oliver. L’arte nell’epoca dell’intelligenza artificiale. Torino: Einaudi, 2023.

(Analisi delle implicazioni dell’IA nel campo artistico e nella creazione digitale.)

Manovich, Lev. Il linguaggio dei nuovi media. Milano: Olivares, 2002.

(Studio sui nuovi media digitali come evoluzione del linguaggio artistico e comunicativo.)

McLuhan, Marshall. Gli strumenti del comunicare. Milano: Il Saggiatore, 1964.

(Teoria dell’influenza dei media sulla percezione e sulla società contemporanea.)

Rosenblatt, Roger. Age of AI: The Impact of Artificial Intelligence on the Future of Work and Creativity. New York: Columbia University Press, 2020.

(Analisi dell’impatto dell’IA sul lavoro e sulla creatività artistica.)


Questa bibliografia serve come solo come base per un dibattito lucido e contestualizzato, lontano dalle reazioni impulsive e dalle narrazioni semplificate. L’innovazione non è né una minaccia né una salvezza, ma un fenomeno da comprendere nel suo sviluppo storico e nei suoi effetti concreti.

Commenti

Una risposta a “Le AI ci rubano il lavoro?”

  1. […] ambiti come la medicina, il diritto e la finanza, dove un errore può avere conseguenze reali. Nel post precedente ho introdotto i rischi delle AI generative, ora proviamo ad arginarli.I chatbot non sono strumenti […]

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