L’ILLUSIONE DELLA VIRALITÀ

Quando il successo numerico diventa un boomerang

Introduzione – Dal raro incidente al modello di business

Agli albori del Web la viralità era un evento imprevedibile, quasi sempre accidentale. Si contano sulle dita di una mano i casi in cui quell’incidente di visibilità si trasformò in un successo duraturo — e solo quando alla base esistevano competenze e contenuti solidi, capaci di resistere alla prova del tempo. Oggi, invece, l’illusione che basti «andare virali» per realizzare ambizioni personali o professionali spinge orde di aspiranti creator, spesso privi di vero materiale da offrire, a inseguire spasmodicamente numeri che raramente diventano valore reale (economico, culturale o umano). Ne derivano dinamiche distorte che impoveriscono il dibattito pubblico e intossicano la socialità online.

Algoritmi che alimentano il conflitto

Le piattaforme social massimizzano l’engagement premiando ciò che provoca reazioni istantanee: indignazione, scherno, polarizzazione. Dai tempi di Facebook alle “For You Page” di TikTok, la logica non è cambiata, si è solo perfezionata. Il risultato? Contenuti complessi e contestualizzati faticano a circolare, mentre frammenti emotivamente carichi vengono spinti in alto, generando cicli di hype seguiti da shitstorm che divorano i protagonisti e anestetizzano gli spettatori.

Il gancio visivo e la performatività compulsiva

Tra le tecniche più inflazionate c’è il gancio visivo: un frame iniziale pensato unicamente per urlare «guardami!». È l’equivalente digitale dell’infanzia non risolta, un gesto che sostituisce l’autorevolezza con l’urgenza di essere visti. Perfino voci di spessore scivolano in questo trucco, sacrificando coerenza e profondità pur di intercettare lo scroll distratto. Il paradosso è che, su TikTok, il premio per tanta fatica consiste quasi sempre in metriche vuote: scarsa monetizzazione, nessun vero sostegno tecnico o legale per chi subisce, zero garanzie di longevità per chi crea.

I bulli della viralità

Un caso emblematico è quello di creator che costruiscono la propria fama abbreviando o/e decontestualizzando video altrui per trasformarli in carne da macello: Accorciabro e Il Musazzi sono paradigmatici. Il loro pubblico, convocato come un’arena di gladiatori, assale utenti estranei alle proprie nicchie culturali, generando shitstorm che distruggono reputazioni ordinarie senza alcun beneficio collettivo.

Al contrario, figure spesso bollate come mero «fenomeno trash» — si pensi a Rita De Crescenzo o Bellofigo — possono racchiudere storie di riscatto e autenticità che meritano uno sguardo più attento. È la prova che il problema non è la leggerezza in sé o la costruzione di un personaggio, bensì l’uso distorto del potere di visibilità per umiliare invece che per raccontare.

Internet come spazio militarizzato

Governance, aziende e influencer scoprono che la tensione paga più del confronto ragionato: nascono così feed polarizzati che rafforzano bias di conferma, sminuiscono le complessità (dalla Palestina alla crisi climatica) e riducono i cittadini a spettatori passivi. L’algoritmo diventa una macchina di crowd-control emotivo, utile a canalizzare il dissenso e a disperdere l’attenzione su dettagli irrilevanti.

Per un uso consapevole

  • Ripartire dal contenuto prima del contenitore: qualità e profondità prima di metriche.
  • Coltivare nicchie protettive, ma senza chiudersi a doppia mandata: il confronto critico e rispettoso resta vitale.
  • Diffidare dei «tiranni del feed»: chi fonda il proprio successo sul dileggio altrui alimenta un’economia dell’odio di cui tutti, presto o tardi, paghiamo il prezzo.
  • Ricordare che la viralità autentica è ancora, come agli inizi, un incidente: se accade, funziona solo quando poggia su valore reale.

Bibliografia minima per approfondire

  • Raffaele Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, 2012.
  • Zizi Papacharissi, Affective Publics: Sentiment, Technology, and Politics, Oxford University Press, 2015.
  • Siva Vaidhyanathan, Antisocial Media: How Facebook Disconnects Us and Undermines Democracy, Oxford University Press, 2018.

La promessa iniziale di “connettere il mondo” si realizzerà solo quando i numeri torneranno a essere un effetto collaterale della qualità e non il suo surrogato.