Le origini europee del cyber-attivismo
Disobbedienza, ironia, arte: dalle radio libere al Chaos Computer Club
Questo è il primo di una serie di articoli sulla storia della resistenza digitale. Partiamo dalle origini europee perché è qui che nasce l’idea che la tecnologia può essere contestata e che la competenza tecnica può essere arma democratica.
Le prossime puntate copriranno gli anni ’90 con i cypherpunk e le crypto wars, poi il decennio di Indymedia e WikiLeaks, poi Snowden e la morte dell’ingenuità digitale, e infine il presente con l’intelligenza artificiale e ChatControl. Ma per capire tutto questo dobbiamo partire da dove è cominciato davvero: Bologna 1977, Berlino 1981, e l’idea radicale che puoi rompere il culo al potere anche senza eserciti, solo con competenza, ironia e determinazione. Con la speranza che queste storie ispirino una nuova generazione di cyber-attivisti.
Perché l’Europa è diversa
Quando oggi parliamo di sorveglianza digitale, privacy, controllo dei dati, in Europa abbiamo un vantaggio rispetto agli Stati Uniti: la memoria storica di cosa succede quando lo Stato sa troppo. Censimenti nazisti usati per deportazioni. Archivi della Stasi su sei milioni di cittadini della DDR. Schedature poliziesche durante le dittature del Sud Europa, liste nere sindacali, dossier su chiunque osasse pensare differente. Questa memoria ha prodotto anticorpi culturali specifici che gli americani non hanno: una diffidenza strutturale verso la centralizzazione dei dati, la consapevolezza che “non ho nulla da nascondere” è una cazzata pericolosa.
Il cyber-attivismo europeo nasce dalla paura concreta la stessa che dovremmo provare oggi. Le proposte europee di ChatControl vogliono scannerizzare i tuoi messaggi prima che vengano cifrati, vendendo la sorveglianza come “protezione dei bambini”. Questa è la merda contro cui il Chaos Computer Club combatte dal 1981, ma per capire perché il CCC esiste dobbiamo tornare indietro. Prima dei computer. Prima di internet. Alle radio libere e alla protesta analogica. Perché il cyber-attivismo europeo non nasce con i modem, nasce con Radio Alice.

Anni ’60-’70: Le radici analogiche della libertà digitale
Prima che qualcuno hackerasse un computer in Europa, c’era Radio Alice a Bologna. Dal febbraio ’76 al marzo ’77, quattordici mesi che cambiano il modo di pensare la comunicazione. La lezione è semplice quanto rivoluzionaria: chi controlla i mezzi di comunicazione controlla lo spazio politico.
Radio Alice trasmette senza autorizzazione statale, chiunque può chiamare e andare in onda, nessuna distinzione tra “emittente” e “pubblico”. La comunicazione è già politica, non devi trasmettere contenuti rivoluzionari, il fatto stesso di trasmettere senza permesso è rivoluzionario.
Il 12 marzo 1977 la polizia irrompe nella sede. L’accusa è “incitamento alla sommossa”, le attrezzature sequestrate, attivisti arrestati. Le accuse cadranno, ma il messaggio dello Stato è chiarissimo: se costruisci infrastrutture comunicative alternative, sei nemico pubblico.
La repressione non aspetta il reato anticipa la minaccia politica.
Se costruisci alternative, sei già colpevole.La stessa battaglia si combatte in tutta Europa. Radio Verte in Francia, Radio Veronica nei Paesi Bassi che trasmette dal mare del Nord per evitare la chiusura, pirate radio nelle comunità caraibiche del Regno Unito. Il filo comune è cristallino: chi la possiede e gestisce le tecnologie di comunicazione definisce cosa può essere detto e da chi.

Anni ’70 – primi ’80: Quando la protesta diventa tecnica
Verso la fine degli anni ’70 convergono due filoni. Da una parte la difesa istituzionale: commissioni parlamentari, leggi sulla privacy, tentativi di disciplinare la tecnologia dall’alto. Dall’altra l’azione tecnica diretta: prime intrusioni in sistemi, reverse engineering, verifiche indipendenti.
Ma questa convergenza crea un problema che il potere sfrutterà per decenni: l’ambiguità. L’hacking come pratica tecnica può significare tutto e il contrario di tutto. Può essere controllo democratico sui sistemi pubblici. Può essere spionaggio per Stati o corporation. Può essere crimine puro, furto. Può essere solo vanità “lo faccio perché posso farlo”. Il potere userà questa ambiguità come clava: se non distingui tra finalità, puoi criminalizzare chiunque tocchi un computer senza autorizzazione.
Il caso di Markus Hess tra il 1986 e il 1989 mostra come funziona la trappola. Hacker tedesco che buca sistemi militari americani e vende gli accessi al KGB. Hess non è un attivista, è uno spione. Ma usa le stesse tecniche, frequenta gli stessi ambienti, usa la stessa retorica dell’esplorare i sistemi.
Quando lo arrestano, le autorità hanno il loro caso perfetto: ecco cosa sono gli hacker, criminali che vendono segreti al nemico. Da quel momento diventa più facile criminalizzare chiunque. Se bucchi un sistema per dimostrare che il voto elettronico è truccabile? Hacker come Hess. Se documenti vulnerabilità in sistemi pubblici? Hacker come Hess. La legge non distingue tra finalità, e questo è esattamente il punto. Ogni intrusione diventa potenzialmente spionaggio.
Per dimostrare che esiste l’hacking civico, nascerà il Chaos Computer Club. Il movimento è sorveglianza attiva e democratica sulla tecnologia. Da oltre quarant’anni si oppone con strategia e ironia all’élite tecnocratica. Nel prossimo post capiremo da dove nasce, i loro metodi, chi lo fonda, e perché Berlino Ovest nel 1981 era il contesto giusto per farlo germogliare.
Per saperne di più:
Radio Alice
Radio Alice quarant’anni più tardi

Questo articolo è dedicato alla memoria di Saleh Aljafarawi e a tutti coloro che credono che l’informazione libera non sia un privilegio, ma un diritto.
Chi era Saleh Aljafarawi?
Saleh Aljafarawi era un reporter indipendente di Gaza. Ventiquattro anni e la determinazione di mostrare al mondo cosa significava vivere sotto un genocidio. Raccontava la guerra da dentro, senza filtri, senza rete di sicurezza, senza redazione alle spalle. Era l’informazione libera nella sua forma più pura e pericolosa: un ragazzo con un telefono che documentava la verità mentre tutto crollava intorno a lui.
Era una delle poche voci che uscivano da Gaza. Non aveva le credenziali del New York Times, non aveva la protezione della CNN. Aveva solo la sua testimonianza, la sua presenza, il suo coraggio. E questo lo rendeva un simbolo: di quella informazione che non passa attraverso filtri istituzionali, che arriva dritta dagli occhi di chi vive l’orrore alle persone che vogliono sapere.
Prima l’hanno ammazzato. Poi l’hanno infamato.
Di solito non scrivo sull’ultima ora. Mi prendo tempo, verifico, aspetto che la polvere si posi. Ma oggi no. Oggi Saleh Aljafarawi è stato ucciso a Gaza, e mentre Gaza intera e i suoi follower piangono la voce che raccontava questo genocidio, Libero Quotidiano tiene in piedi un articolo che lo chiama “attore al servizio di Hamas”, “fanatico imbevuto di propaganda”, uno che “recitava” il dolore per farsi i follower.
Sono stanco. Stanco di vedere che chi crede nell’informazione libera deve sempre combattere su due fronti: contro chi ammazza i reporter e contro chi li infama dopo averli ammazzati. Perché non basta ucciderli, no. Bisogna anche cancellare la loro credibilità, sporcare la loro memoria, far credere che se l’erano meritato.
E Libero, in questo, ci mette tutto il suo spregevole impegno.
L’articolo che non dovrebbe esistere
Leggiamo cosa hanno scritto su Saleh. “Chiagn’e fotte arabo”. Così lo chiamano. Con questa eleganza. Lo accusano di “sbavare” dietro alle donne guardando i suoi follower su Instagram. Lo deridono perché in un video è ferito in ospedale e in un altro è in piedi due giorni dopo: “miracoli della sanità palestinese”, scrivono ridacchiando.
Zero verifiche. Zero fonti attendibili. Zero rispetto per un ragazzo appena morto.
Quel video dell’ospedale? Smentito da Associated Press, AAP FactCheck, Soch Fact Check, Myth Detector. Non era lui. Era un’altra persona. Ma a Libero non interessa: la bufala funziona meglio della verità, fa più clic, conferma i pregiudizi del loro pubblico. Perché verificare quando puoi copiare teorie del complotto da Twitter e chiamarle inchiesta?
Chiamano “Pallywood” – la presunta Hollywood palestinese – quello che per milioni di persone era l’unica finestra su un massacro in diretta. Scrivono che “recitava” il dolore, quando quel dolore era reale, documentato, verificabile. Ma questo è il loro metodo: insinuare il dubbio, sporcare, confondere. Non devono dimostrare nulla, devono solo far passare il messaggio che i palestinesi mentono sempre.
Il giornalismo come arma
Questo di Libero non è giornalismo. È propaganda travestita da cronaca. È diffamazione spacciata per verità. È l’uso strumentale dell’informazione per legittimare un genocidio: se Saleh era un attore, allora Gaza è un set cinematografico, e tutto quello che ha mostrato è falso. Se lui mentiva, allora mentono tutti. E se mentono tutti, allora non sta succedendo niente.
Sono stanca di questa merda.
Stanca di vedere che mentre i reporter palestinesi rischiano la vita per mostrare cosa significa vivere sotto le bombe, i giornalisti occidentali di destra stanno al sicuro nelle loro redazioni a infangarli. Stanca di vedere che l’informazione libera vale solo quando conviene, solo quando la vittima ha il passaporto giusto, solo quando la storia conferma la narrazione dominante.
Saleh Aljafarawi documentava quello che vedeva: ospedali bombardati, quartieri rasi al suolo, bambini morti, famiglie intere cancellate. In uno dei suoi video mostrava bambini che scavavano a mani nude tra le macerie, cercando i loro genitori. Nessuna regia, nessun copione. Solo polvere, sangue e urla vere.
I suoi video sono oggi usati da ONG e osservatori internazionali per verificare violazioni del diritto umanitario. Ma per Libero era solo un “fanatico” che “recitava”.
Due attacchi contro l’informazione libera
È questo che mi fa imbestialire: Saleh è stato colpito due volte. La prima da chi l’ha ucciso. La seconda da chi, mentre il suo corpo è ancora caldo, continua a infangarlo per togliergli l’unica cosa che aveva: la credibilità.
Perché difendere la sua memoria non è solo difendere lui. È difendere il principio che l’informazione libera non appartiene solo ai grandi network, alle testate accreditate, ai giornalisti con il giubbotto antiproiettile firmato Reuters. Appartiene anche a chi, con un telefono e un ideale, decide di raccontare quello che vede. Anche se non ha uno stipendio. Anche se non ha protezione. Anche se rischia la vita.
Saleh rappresentava questo: l’informazione dal basso, quella che spaventa i potenti proprio perché non è controllabile, non è mediata, non è filtrabile. Per questo andava fermato. Per questo va infangato anche da morto.
Chi accetta di credere che Saleh fosse un figurante, accetta che l’informazione libera valga solo quando viene certificata dall’alto. Chi ride dei “miracoli della sanità palestinese”, ride del diritto di chiunque a raccontare la propria storia. Chi chiama “Pallywood” Gaza, sta dicendo che solo certi testimoni meritano di essere creduti.
Contro il silenzio
Saleh Aljafarawi era un testimone. La sua voce tremava tra le macerie, ma non si è mai spenta. Ogni video era un atto di resistenza: un modo per dire che anche sotto le bombe si può ancora raccontare.
Ed è questo che fa paura. Un ragazzo con un telefono che sfida l’oblio. Un volto che rompe la narrazione imposta. Perché chi controlla il racconto controlla il mondo e Saleh aveva capito che raccontare era già una forma di lotta.
Difendere la sua memoria significa difendere il diritto di esistere, di testimoniare, di non essere cancellati.
Significa dire che la verità non muore con chi la racconta.
Lo hanno chiamato attore. Ma gli attori si alzano dal set.
Lui no.
Fonti:
Libero Quotidiano (per citazione critica)
AAP FactCheck
Associated Press
Soch Fact Check
Myth Detector
Kathimerini
The Jerusalem Post