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Una cospirazione luminosa

Il Cartello delle Lampadine: alle origini dell’obsolescenza programmata

Nel dicembre del 1924, mentre l’Europa cercava di riprendersi dal trauma della Grande Guerra e le industrie americane esplodevano sotto la spinta del consumismo, in una riunione segreta a Ginevra nacque un’alleanza che avrebbe condizionato il XX secolo: il Cartello Phoebus. Le aziende coinvolte – tra cui General Electric (USA), Philips (Paesi Bassi), Osram (Germania), Compagnie des Lampes (Francia) – si accordarono per limitare la durata delle lampadine elettriche a 1.000 ore, pur sapendo che era tecnicamente possibile produrne di molto più durature.

Lo scopo era semplice: aumentare il consumo e garantire la continuità del mercato. A quell’epoca alcune lampadine raggiungevano le 2.500 ore di funzionamento, altre anche di più. Ma questo creava un “problema” per le industrie: prodotti troppo resistenti significavano meno vendite.

La nascita dell’obsolescenza programmata

Il cartello Phoebus è oggi considerato il primo caso documentato di obsolescenza programmata industriale, cioè la pratica di progettare intenzionalmente un prodotto per durare meno di quanto potrebbe. Il concetto verrà formalizzato solo decenni più tardi, ma è qui che nasce l’idea: rendere l’usura una funzione, non un difetto.

Ogni azienda del cartello doveva testare e certificare le proprie lampadine presso un laboratorio centrale a Berlino. Chi superava le 1000 ore veniva multato. I documenti emersi negli anni ’90, e raccolti anche nel documentario “The Light Bulb Conspiracy” (Cosima Dannoritzer, 2010), rivelano l’esistenza di una strategia lucida e consapevole per ridurre la durata dei prodotti.

La lampadina eterna: mito o realtà?

Un simbolo clamoroso di quanto la tecnologia fosse già in grado di superare i limiti imposti dal marketing è la lampadina di Livermore, ancora oggi accesa dal 1901 in una caserma dei pompieri in California. Prodotta dalla Shelby Electric, ha superato il secolo di funzionamento ininterrotto. Questa lampadina dimostra che la lunga durata non è utopia tecnologica, ma scelta politica ed economica.

Una questione culturale

L’obsolescenza programmata non è solo una strategia industriale, ma un modello culturale. Il consumismo novecentesco ha costruito la propria identità sull’idea che “nuovo” equivalga a “migliore”, anche quando si tratta solo di un cambio di design. Dagli elettrodomestici alle automobili, fino ai dispositivi elettronici odierni, la vita utile dei prodotti viene calcolata a tavolino.

Il cartello delle lampadine ha posto le basi di una cultura della sostituzione, che ha alimentato il ciclo continuo produzione–scarto–consumo. Ancora oggi, molti prodotti digitali (come smartphone o stampanti) hanno componenti che smettono di funzionare non per usura, ma per blocchi software o aggiornamenti incompatibili.

Una resistenza possibile

Oggi, il concetto di “diritto alla riparazione” torna al centro del dibattito europeo. Diverse iniziative legislative chiedono di rendere i prodotti più riparabili, con pezzi di ricambio disponibili e documentazione tecnica trasparente. In Francia, ad esempio, l’“indice di riparabilità” è obbligatorio su molti prodotti. Ma la strada è ancora lunga.

La storia del cartello delle lampadine non è solo un episodio di archeologia industriale, ma una lezione sul potere dell’industria nella manipolazione del tempo: non solo quello del funzionamento tecnico, ma anche del nostro tempo di vita, attenzione, desiderio.

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